La lezione da imparare dal disastro di RadioShack

radioshack«Dentro il crollo di RadioShack» è il titolo di un articolo di sei pagine pubblicato il mese scorso sulla rivista Businessweek. Perché RadioShack è finita male? Per scoprirlo, diamo un’occhiata alla storia di Businessweek.

RadioShack ha passato gli ultimi venti anni cambiando continuamente identità, senza trovarne mai una del tutto convincente, e mettendo a dura prova la pazienza degli investitori, dei dipendenti e – soprattutto – dei clienti.

I manager ristrutturavano in continuazione i negozi, e così i dipendenti avevano difficoltà a ricordare dove stavano le cose.

I tentativi di spremere tutto ciò che si poteva da chiunque entrasse in uno dei negozi avevano trasformato lo shopping e il lavoro presso RadioShack in una tortura.

Non era inevitabile che le cose andassero così. Da qualche parte ci sono ancora potenziali clienti di RadioShack.

Qualcuno ha bisogno di un cavo HDMI e non vuole aspettare che Amazon glielo spedisca; qualcun altro ha bisogno per il suo lavoro di un cellulare usa e getta. E poi ci sono gli appassionati di elettronica, che una volta costituivano il nucleo della clientela di RadioShack.

Come dice Businessweek, «non era inevitabile che le cose andassero così».

Se solo il management di RadioShack non avesse continuato a cambiarne l’identità.

Se solo i dirigenti non avessero continuato a ristrutturare i negozi.

Se solo i dipendenti di RadioShack non fossero stati così aggressivi.

Ma questo è il tipico modo di pensare del management.

Il nome e l’aspirazione

Dal punto di vista del management, ogni marchio ha due identità separate:

1) il nome e

2) l’aspirazione, cioè la posizione che il marchio sta tentando di conquistare nella mente dei potenziali clienti.

Il management non ha problemi a tenere separate le due cose. «RadioShack» sarà stato pure il nome del marchio, ma non c’era motivo perché la catena non vendesse migliaia di prodotti che non avevano nulla a che fare con gli apparecchi radio.

E invece un motivo c’era. Dal punto di vista del consumatore, il nome e l’aspirazione sono legati assieme. Burger King vende hamburger. Pizza Hut vende pizze. Taco Bell vende tacos e altro cibo messicano.

E RadioShack vende… radio?
Il nome di RadioShack non aveva senso per la maggior parte dei consumatori, e così molti di loro non avevano idea di cosa RadioShack vendesse.

Nessuna strategia dura per sempre

RadioShack era stata fondata nel 1921 come negozio per radioamatori. La società conobbe il massimo splendore negli anni Settanta, al tempo della mania per le radio CB.

Nel 1977, RadioShack presentò uno dei primi computer personali, il TRS-80, che ebbe un grande successo.

L’ Apple II, il Commodore Pet e il RadioShack TRS-80 erano i tre marchi principali di personal computer. Il TRS-80 (spesso soprannominato «Trash 80») riuscì addirittura per qualche anno a superare nelle vendite le macchine della Apple.

Il successo del TRS-80 avrebbe dovuto far suonare un campanello di allarme nelle stanze del management di RadioShack.

Come mai stiamo vendendo personal computer in un negozio di radio?

La soluzione? Cambiare nome. Col senno di poi, c’era un nome perfetto che la società avrebbe potuto usare al posto di RadioShack.

Digital Depot.

Se RadioShack avesse cambiato il proprio nome in Digital Depot nell’anno in cui introdusse il TRS-80, sarebbe stata la prima grande catena a usare «Depot» come parte del proprio marchio (Home Depot fu fondata solo nel 1978, e Office Depot nel 2003).

Per il management il nome non è mai il vero problema

Perché Businessweek non elenca la debolezza del nome «RadioShack» fra i problemi della catena?

Perché redattori, giornalisti e dirigenti aziendali ammettono raramente che il nome di un marchio possa costituire il problema principale. Per loro il problema è sempre un altro. Il prodotto. Il servizio. Il prezzo. La gente. La confezione. La distribuzione.

Devo ancora leggere un articolo su Businessweek, o su qualsiasi altra pubblicazione dedicata al management, che dia alla Kodak la colpa di avere usato il nome di una pellicola fotografica per dei prodotti di fotografia digitale.

O alla Xerox di avere usato il nome di una fotocopiatrice per un computer mainframe.

O alla IBM di avere usato il nome di un computer mainframe per un computer personale.

O alla Nokia di avere usato il nome di un telefono cellulare per uno smartphone.

E poi c’è Al Jazeera

L’aspirazione:

«Ad Al Jazeera English, ci concentriamo sulla gente e sugli eventi che toccano la vita della gente.Portiamo alla luce argomenti di cui spesso non si parla abbastanza, ascoltando tutti i punti di vista e dando voce a chi non ce l’ha. I nostri telespettatori si affidano ad Al Jazeera English per avere informazione, ispirazione e divertimento. Il nostro modo di fare giornalismo, imparziale e basato sui fatti, ha ottenuto lodi e rispetto in tutto il mondo».

E poi c’è il nome, «Al Jazeera». Almeno in America, cosa ha più effetto sui potenziali telespettatori, il nome o l’aspirazione? «Al Jazeera (che suona come “la TV dei terroristi islamici”)» o il «modo di fare giornalismo, imparziale e basato sui fatti, che ha ottenuto lodi e rispetto in tutto il mondo»?

È il nome. Al Jazeera ha circa 17.000 spettatori in prima serata, contro i 488.000 della CNN, i 626.000 della MSNBC e gli 1,7 milioni di Fox News.

Quasi tutti gli esperti di marketing avrebbero potuto dire ad Al Jazeera che il suo nome non poteva funzionare in America. Perché Al Jazeera non ha dato alla sua rete americana un altro nome?

È un peccato. Il management cambia un’aspirazione senza pensarci due volte. Ma quando si tratta di cambiare nome, la risposta quasi universale è «no».

Ho discusso di cambiamenti di nome con il top management di molte grandi società. Non ricordo di avere mai avuto la meglio in nessuna di quelle discussioni.

E poi c’è The Shack

Nel 2009 RadioShack spese 200 milioni di dollari in una campagna televisiva e digitale per ripresentarsi con il nome «The Shack».

Ma questo avveniva solo nella pubblicità. Le insegne fuori dei negozi leggevano ancora «RadioShack».

Si sarebbe potuto risolvere in questo modo il problema di posizionamento dell’azienda? Limitandosi a ignorare la parola negativa «Radio» e concentrandosi sulla parola «Shack»?

Non credo proprio.

I nomi sono importanti, per ragioni che gli addetti al marketing spesso dimenticano.

I nomi hanno una credibilità che le aspirazioni non hanno.

Se una targa stradale dice «Via del Lungolago», la gente presumerà che la strada costeggi la riva di un lago. Altrimenti perché l’avrebbero chiamata Via del Lungolago?

Se un marchio si chiama Colla Gorilla, i consumatori presumeranno che quella colla sia molto forte. Altrimenti perché chiamarla Colla Gorilla?

Se un marchio si chiama Diet Coke, i consumatori presumeranno che quella bevanda non sia altrettanto buona della Coca Cola normale.

E che qualsiasi cosa si chiami «Sciroppo di mais ad alto contenuto di fruttosio» non farà bene alla loro salute.

I nomi sono importanti.

RadioShack ha avuto sei amministratori delegati negli ultimi dieci anni. Com’è possibile che nessuno di loro abbia capito che la catena aveva bisogno di un nuovo nome?

I nomi sono importanti.

Al Ries

covermockup

 PS: Vuoi imparare a sfruttare il potere del nome e della focalizzazione per aumentare le vendite e polverizzare le speranze dei tuo concorrenti di competere con te?

Allora non lasciarti sfuggire il libro di Al Ries: Focus – il futuro della tua azienda dipende dalla focalizzazione-

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24 pensieri su “La lezione da imparare dal disastro di RadioShack

  1. Ho cercato su internet il significato della parola shack ed ho trovato un traduttore che, in cima alle parole composte, scrive così: radio shack, catena di negozi di elettronica nell’America del Nord. Il traduttore è wordreference. Spiace quando una azienda così radicata nella vita degli americani finisca così. Al dice che Radio Shack ha cambiato sei amministratori delegati in dieci anni. Mi torna in mente quello che dice MJ De Marco nel suo libro. Non delegare il controllo della tua azienda a persone esterne, a meno che tu non abbia una conoscenza tale da poter capire cosa è giusto e cosa non lo è ed essere così in grado indirizzare quello che i tuoi manager devono fare.

  2. Ciao Frank (mi permetto di darti del tu, anche se non ti conosco di persona),
    bello il tuo libro.
    Prima di tutto mi ha riportato in mente tanti episodi “simpatici” che mi sono capitati quando vendevo porta a porta e quando vendevo prodotti contro la caduta dei capelli in ufficio.
    “Simpatici” adesso; ma quando li vivevo sulla mia pelle erano un’altra cosa.
    E in più pieno zeppo di indicazioni pratiche da sperimentare.
    Penso che gli farò fare la stessa fine del libro “il meraviglioso venditore”; me lo stra-leggo e ogni volta miglioro un po’. Grazie.

    • Ciao Beatrice, lavoraci e soprattutto scandaglia le altre risorse gratuite che sono segnalate nel libro.

  3. Lo dicono anche gli scritti sacri: “Un buon nome è preferibile all’unguento profumato…” Qoelet 7:1
    Eheh..vado a produrre la colla Mammuth!!!

    Grazie Frank! Sempre illuminante.

  4. Ciao Frank,sono Ionel dimmi per favore cosa pensi del nome del mio marchio Gimnastica Boutique Studio e dimmi per favore se sei disponibile per delle consulenze e se si quanto costa,ti ringrazio.

  5. Ciao Frank, un post molto interessante. Personalmente non conoscevo la storia completa di RadioShack, ma in effetti ha innescato una serie di errori eclatanti.

    Quello che mi domando io è: al vertice di queste aziende ci sono manager pagati fior di quattrini! Posso comprendere il singolo errore, ma come si fa a non comprendere che è del tutta da rifare l’intero business? Come si possono fare errori di questo calibro, nonostante collaboratori e “consiglieri” che penso siano pagati a peso d’oro?

    • E’ la solita domanda che fanno tutti. Siete ipnotizzati dal “Ma loro sono grandi, possono pagare i cervelloni! Come fanno a sbagliarsi?”.

      La realtà è che i cervelloni non esistono. A scuola si studia Kotler e altro marketing di merda, datato o proprio errato.

      Inoltre le grandi aziende sono grandi proprio perchè sono partite focalizzate. Poi una volta quotate in borsa diventa più un discorso di finanza che di impresa.

      In generale, quello che la maggior parte della gente (te compreso ) non sa, è che la maggior parte di queste aziende grandi brucia milioni e milioni di dollari in perdite ogni anno. Stanno aperte grazie alle banche, a sovvenzioni statali e ad altri meccanismi che tu non avrai mai se apri una PMI.

      Quindi questi manager non sanno un cazzo. E in genere è così in ogni grande azienda del mondo. Ti consiglio di leggere il libro Focus che contiene bilanci alla mano le prove documentate di ciò che ti dico.

  6. Ciao Frank,

    Sto leggendo Focus e studiando il bran positioning attraverso questo blog e i vari articoli di Ries in giro per il web.

    Devo dire che più lo studio più capisco che sembra semplice, ma in realtà non lo è.

    Per esempio ho un dubbio che mi sta assillando e alla quale non ho abbastanza competenze per rispondere.

    Giro la domanda a te così magari mi sai aprire gli occhi (ancora una volta 🙂 ).

    L’Apple Watch è un’estensione di linea della Apple.

    Ma perché l’iPod o l’iPhone non lo sono stati?

    Qual’è la differenza?

    La parola di Apple è “Think different” e quando uno pensa ad Apple gli vengono in mente dispositivi elettronici di alta gamma.

    E allora qual’è il limite oltrepassato il quale hai un’estensione di linea?

    Mi sfugge qualcosa…

    Mi piacerebbe un casino avere un tuo parere, se ti va.

    Ti ringrazio intanto Frank.

    Mattia

    P.S. A proposito di RadioShack, l’ho sempre sentito ma MAI capito di preciso che cos’era proprio a causa del nome 🙂

    • Non puoi creare un brand nel vuoto.

      iPhone è il primo smartphone. E’ un brand a sè rispetto a Apple.

      Apple Watch usa il nome “Apple” ma non è nemmeno quello il grave. E’ che proprio non risponde a un’esigenza del mercato.

      E’ spiegato chiaramente anche dai suoi ideatori (che non capiscono di aver fatto una cazzata) :

      “It was different with the phone – all of us working on the first iPhone were driven by an absolute disdain for the cellphones we were using at the time,” said Ive. “That’s not the case here. We’re a group of people who love our watches. So we’re working on something, yet have a high regard for what currently exists.”

      If the Apple Watch fails, we could end up looking back at this quote as the simple explanation. Apple offered up a solution for something it didn’t consider problematic.

      Read more: http://uk.businessinsider.com/heres-the-problem-with-the-apple-watch-2015-3?utm_content=buffer6d228&utm_medium=social&utm_source=facebook.com&utm_campaign=buffer?r=US#ixzz3Tzibz94w

      Apple Watch offre una soluzione a un “non problema”. Se c’è un “non problema” non c’è una categoria da creare.

      Tutto qui.

  7. Ciao Frank,

    ti seguo da circa 3 mesi e da qualche giorno sto leggendo il tuo ultimo libro.
    Assieme al tuo ho acquistato anche gli altri, più uno di Piernicola.

    Sono nel campo tessile (calze) praticamente dalla nascita e la nostra filosofia fino a pochi giorni fa era: facciamo di tutto, calze da uomo, donna e bambino.
    Risultato: facciamo si un po’ di tutto ma la situazione non cambia anzi va sempre peggiorando.

    Leggendo post e libri e ascoltandoti sto cambiando mentalità e sto cercando di focalizzarmi solamente su un target, i bambini.

    Ancor più focalizzato voglio pensare solamente ad un prodotto per volta partendo in questo caso dalla calza antiscivolo. Il mio unico pensiero è fare un brand specifico e crearci intorno del marketing costruttivo (Blogvendita l’ho già letto tutto, devo mettermi all’opera).

    In questo momento sto pensando proprio al nome da dare alla linea, ma sono un attimo in confusione. Puoi darmi solo un piccolo consiglio per favore.

    Ti ringrazio

    Buona serata

    Manuel

    • Il nome da dare alla linea è una consulenza, non un piccolo consiglio. E io non faccio consulenze sul blog, mi dispiace.

  8. Ciao Frank,

    Sono in fase di studio come sempre e mi è sorto un dubbio.

    Ho frequentato una fiera dove un amico aveva fatto lo stand(non importa di cosa perchè non cambia quello che vorrei chiederti) ed ho notato che ogni azienda si appoggia ad agenti per coprire le varie regioni e i paesi esteri… E fin qui tutto bene.

    Questi agenti ricevono un compenso provvigionale e rappresentano più aziende che peró possono avere clienti uguali (per esempio vendono piastrelle di più pmi alle imprese parlando di ceramiche; tessuti di varie pmi parlando di moda ecc per capirci)

    Ora ti vorrei chiedere: è credibile secondo le leggi del branding un agente plurimandatario? Come è possibile che venga ritenuto lo specialista se rappresenta più cose allo stesso cliente, tipo il lunedì gli porta la cancelleria della pmi X, il martedì la cancelleria della pmi Y e così via?

    Grazie in anticipo della risposta!
    P.s. Non cerco di strapparti una consulenza, solo un chiarimento per capire.

    • L’agente plurimandatario è una follia tutta italiana. All’estero, in particolare in USA, non esiste. O vesti una maglia o ne vesti un’altra.

      Come puoi impegnarti con tutto te stesso, vendere con tutto te stesso, promuovere con tutto te stesso qualcosa se nella tua scatola hai anche i prodotti della concorrenza?

      Il problema d’altro canto è un problema di sicurezza. Le aziende italiane non solo non hanno brand rilevanti, quindi vendere uno o l’altro spesso non fa differenza, ma hanno il brutto vizio di alzarti i budget, segarti le zone,lasciarti a casa, diminuirti le provvigioni in maniera unidirezionale, tipo i contratti delle banche. O anche fallire perchè sono scarsi. Quindi avere più aziende in realtà è una sorta di “assicurazione” sul lavoro obbligatoria per molte persone.

      Per me la soluzione è lavorare per un’azienda solida, con un brand forte, che abbia un passato di affidabilità nella retribuzione degli agenti (basta chiedere ai colleghi futuri) o crearsi una propria azienda o meglio un proprio brand.

      Vuoi vendere cancelleria? Oggi con 5000€ ti fai un brand che ti pare e dalla Cina in qualche settimana ti mandano due tonnellate di quello che vuoi. Perchè vendere per le briciole facendo guadagnare qualche stronzo 😉 ?

  9. Io ne ho viste di tutte i colori a riguardo: lavoravo per una azienda di servizi ,e c’erano colleghi che vendevano anche per la concorrenza , l’azienda da parte sua spesso cercava di eludere il “passaggio” dal venditore per non pagare la provvigione Allucinante! Immagino che solo in italia succeda una cosa del genere.

  10. Un saluto a tutti, l’esempio riportato a proposito dei venditori plurimandatari non mi sembra corretto… in tutti i sensi.
    Generalmente un agente non può avere mandati di aziende in concorrenza che vendono lo stesso prodotto ma per una questione etica ma soprattutto legale.
    Generalmente il plurimandatario vende prodotti che possono essere complementari, ad esempio se vendo caffè in un bar posso anche vendere le bibite in teoria per ottimizzare i costi ma sicuramente pagando in termini di posizionamento venendo inquadrato come “qualunquista” e non come specialista.
    Dopo aver espresso il mio parere avrei anche io necessità di un chiarimento.
    Attualmente vendo salumi di Cinta Senese di un piccolo laboratorio Toscano… quindi un prodotto di estrema nicchia e tutta la mia comunicazione gira su questi salumi.
    Di recente mi è stato proposto di rappresentare un piccolo caseificio che produce prodotti eccellenti, alcuni presidio slow food, l’idea sarebbe comunque quella di portare avanti come comunicazione la Cinta Senese e far sapere ai clienti attivi, verbalmente in occasione di un incontro, la disponibilità di questi formaggi. Potrebbe essere una azione giusta?
    Domanda nella domanda… il mercato in cui opero mi sta “etichettando” come conoscitore di prodotti gourmet mi conviene portare avanti il brand della Cinta Senese o diventare io stesso un brand e cioè di una persona che vende prodotti alimentari esclusivi?
    Pongo questa domanda perchè alcuni clienti mi dicono “Sandro se li hai tu questi prodotti devono essere sicuramente validi… quando vuoi mandameli”.
    Scusate per la lunghezza del commento e grazie a tutti.

    • Sandro in Italia nel mondo reale non è così. C’è gente che vende “cioccolato” e lo vende di 4 marche concorrenti diverse tenendoselo a catalogo tranquillamente. Cio detto…

      Sandro sei un venditore. Lavora per brandizzare te stesso, non l’azienda che rappresenti (che domani potrebbe cambiare per mille motivi).

      Alternativamente se vuoi portare avanti un brand aziendale, crea il tuo facendoti fare prodotti private label. Se sei un venditore tosto e hai un bel fatturato, è difficile che tu venga ignorato dai produttori. Se non conti nulla e pesi poco in termini di fatturato è più difficile e allora ti rimane l’opzione uno.

      Ciao.

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